Nacque il 1º ott. 1562, terzogenito di Alfonso d’Este marchese di Montecchio e di Giulia Della Rovere: prima di lui erano nati Alfonso (morto nel 1587) ed Eleonora. Perdette la madre quand’era ancora infante e molti anni dopo il padre si risposò con Violante Segni, dalla quale già aveva avuto due figli: Ippolita ed Alessandro (che diverrà poi cardinale). Del giovane Cesare non si sa quasi nulla se non che ebbe come precettore Ottobono Pocetti da Sabbioneta che gli diede una buona istruzione letteraria. Più che agli studi il giovane pare attendesse alle cacce e alle facili avventure amorose, nelle quali ebbe assiduo compagno il principe Vincenzo Gonzaga.
Nel 1581 dopo un primo tentativo di combinare le nozze con madamigella di Vaudemont, figlia di Nicola di Lorena Mercoeur e sorella di Luigia regina di Francia si ripiegò su una sorella del granduca di Toscana, Virginia. Cesare, benché non avesse alcun desiderio di accasarsi, cedette ai comandi della famiglia. Cesare cercò di tirare le cose in lungo, tanto che il 15 settembre 1585 il granduca scriveva ad Alfonso sollecitando la celebrazione del matrimonio. Finalmente il 6 febbr. 1586 si ebbero le nozze e alla fine dello stesso mese gli sposi si stabilirono a Ferrara nel palazzo dei Diamanti, ceduto loro dal cardinale Luigi d’Este. Il matrimonio fu celebrato dai versi di parecchi poeti: tra questi il Tasso del quale Cesare fu amico.
Morto nel 1587 Alfonso di Montecchio, Cesare restò il più prossimo parente di Alfonso II, che, perduta la speranza di avere figli, si preoccupava della successione nel ducato.
Due erano i possibili successori: Cesare, che era cugino del duca, e Filippo d’Este marchese di San Martino in Rio, che del duca era parente molto alla lontana, giacché il loro più prossimo antenato comune era Niccolò III, morto nel 1441. Le investiture date agli Estensi dai papi a cominciare da Alessandro VI erano solo per Alfonso I e i suoi discendenti: il che escludeva un valido diritto di Filippo alla successione. Quanto a Cesare, una bolla di Pio V, confermata da Sisto V, vietava che le terre della Chiesa date in feudo si potessero concedere ad altri, quando fosse estinta la linea degli investiti; inoltre una consuetudine, se pur non sempre osservata, degli Stati della Chiesa ammetteva alla successione solo i figlio legittimi o legittimati per susseguente matrimonio. Ora, sebbene fosse opinione comune che Alfonso I avesse segretamente sposato Laura Dianti, madre di Alfonso di Montecchio, di tale matrimonio o non era mai esistito o era andato perduto l’atto autentico. Sicché la S. Sede aveva un fondato motivo per non riconoscere il diritto di Cesare alla successione e arrivare così ad incamerare Ferrara. Alfonso II riuscì nel 1594, pagando una grossa somma, a ottenere dall’imperatore Rodolfo II la facoltà di nominarsi un successore nei ducati di Modena e Reggio; ma i molti suoi tentativi di ottenere dal papa, in deroga alla bolla di Pio V, una simile facoltà relativamente a Ferrara furono vani. Ciò nonostante egli, nel testamento del 17 luglio 1597, nominò Cesare suo erede e successore.
Subito dopo la morte del duca Alfonso (27 ott. 1597) Cesare si trasferì in castello e il giudice dei Savi, alla presenza del magistrato, della corte e dei rappresentanti delle arti, lesse il testamento del defunto e proclamò Cesare duca.
Il giorno dopo, accompagnato dai Savi e da una folla di nobili e di popolani, Cesare si recò solennemente in duomo, dove il vescovo G. Fontana (benché riluttante e quasi costretto a forza) lo benedisse e assistette alla cerimonia del giuramento di fedeltà. Il nuovo duca aveva mandato suo fratello Alessandro a prendere per lui possesso dei ducati di Modena e di Reggio e aveva spedito ambasciatori a tutte le corti d’Italia, compresa quella papale, all’imperatore e ai re di Francia e di Spagna per notificare la sua assunzione al trono.
Ma a Roma, come vi giunse, il 1º novembre, la notizia della morte del duca Alfonso, il papa Clemente VIII convocò il Sacro Collegio, manifestò l’intenzione di devolvere alla Chiesa il ducato di Ferrara e nominò una commissione di diciannove cardinali, che lo assistessero e consigliassero. Dall’una e dall’altra parte cominciarono quindi manovre diplomatiche e preparativi militari.
La situazione politica poteva sembrare favorevole alla diplomazia estense, giacché né gli Stati italiani né le maggiori potenze vedevano volontieri un ingrandimento dello Stato della Chiesa. Ma, d’altra parte, la decisione del papa e ancor più quella di quasi tutti i cardinali era fermissima e gli Stati italiani temevano che un conflitto armato tra l’Estense e il papa desse origine a una guerra generale e che l’Italia divenisse nuovamente il campo di battaglia della lotta di supremazia tra Francia e Spagna. Perciò tutte le corti della penisola, pur essendo favorevoli all’Estense, davano alle parti consigli di moderazione. Venezia era la più interessata a impedire che Ferrara venisse in possesso della Chiesa: la sua diplomazia riuscì, in qualche momento, a mettere il papa nell’incertezza. I rappresentanti invece della Francia e della Spagna tenevano un diverso linguaggio secondoché parlassero all’uno o all’altro dei contendenti: l’ambasciatore francese a Roma, duca di Piney, comunicò al papa che il suo re era pronto a mandargli un soccorso di 8.000 o 10.000 fanti e di 2.000 cavalli, mentre privatamente esortava l’ambasciatore estense, G. Giglioli, ad incoraggiare il duca a resistere; il governatore di Milano, Juan-Fernández de Velasco, si disse pronto a mandare a C. aiuti militari, mentre il viceré di Napoli, conte d’Olivares, e l’ambasciatore spagnolo a Roma, duca di Sessa, mostravano di ritener valide le ragioni del papa. L’imperatore tergiversava. Questa situazione ebbe su C., uomo di carattere irresoluto e fiacco, un effetto paralizzante. La condotta della corte romana era invece quanto mai decisa.
Il 4 novembre il papa, con l’approvazione unanime dei diciannove cardinali, emise un monitorio nel quale affermava che il ducato era devoluto “ob lineam finitam” alla Chiesa e che C. lo occupava contro ogni diritto. Perciò gli intimava, sotto pena di scomunica, di rilasciarlo e, se si sentiva gravato, di comparire entro quindici giorni davanti a lui per giustificarsi ed esporre le sue ragioni.
Procedevano intanto dalle due parti i preparativi militari, ostacolati dalla scarsità, di denaro della quale entrambe pativano. Il papa aveva nominato capitano generale delle sue truppe il cardinal nipote Pietro Aldobrandini e C., dopo aver cercato inutilmente un generale di maggior abilità e prestigio, aveva dato il comando delle sue al marchese Ippolito Bentivoglio.
In dicembre la situazione sia diplomatica sia militare di C. era tutt’altro che disperata, quando il papa, il giorno 23, pronunciò, alla presenza del Collegio cardinalizio e degli ambasciatori di Francia e di Savoia, un decreto di scomunica in termini molto duri, che fu sottoscritto da quarantaquattro cardinali.
Dato il carattere religioso, anzi quasi bigotto, di C., la scomunica fu senza dubbio la più importante causa della sua resa. Ma non fu la sola: ebbe gran peso anche la situazione interna del ducato ferrarese. Molti nobili e popolani erano scontenti e desiderosi di mutare governo; rivolte erano scoppiate a Cento, al Bondeno, a Comacchio e a Lugo; alcuni dei consiglieri di C. (pare anche G. B. Laderchi detto l’Imola, che era e rimase il suo più intimo segretario) lo tradivano, informando la corte romana delle sue intenzioni e dei suoi movimenti; diversi principi italiani, considerando che questo era l’unico modo d’impedire lo scoppio d’una guerra di conseguenze imprevedibili, cominciarono a consigliargli di cedere. D’altra parte egli sapeva che una guerra avrebbe potuto fargli perdere anche Modena e Reggio, che, mentre Ferrara era quasi inespugnabile, potevano essere difficilmente difese. Forse anche, per la sua religiosa devozione all’autorità pontificia, egli non aveva mai pensato di venire veramente a una guerra con la Chiesa e i suoi preparativi militari erano più che altro un mezzo di pressione per venire ad un vantaggioso accomodamento. Lucrezia d’Este, duchessa d’Urbino, sorella del defunto duca, che era in ottimi rapporti con gli Aldobrandini, si offerse come mediatrice per trattare le condizioni della resa e C. la nominò sua plenipotenziaria. La scelta di questa vecchia dama come sua rappresentante è generalmente considerata uno dei più madornali errori di C. e ad alcuni è parsa addirittura inspiegabile, giacché il duca Alfonso, circa venticinque anni prima, aveva fatto assassinare l’amante di lei, E. Contrari, pare per istigazione di Alfonso di Montecchio ed ella avrebbe riversato su C. l’odio che aveva avuto per il padre. Tale fu l’opinione comune dei contemporanei; ma, comunque sia, non è da credere che le cose sarebbero andate diversamente se il plenipotenziario fosse stato un altro. Lucrezia partì da Ferrara il 31 dic. 1597 e s’incontrò a Faenza col cardinale Aldobrandini.
Le trattative si conclusero il 13 genn. 1598 con la capitolazione (detta appunto di Faenza) per la quale C. veniva assolto dalla scomunica e rinunziava al possesso del ducato di Ferrara, di Cento, della Pieve e dei luoghi di Romagna. Poteva tuttavia portare seco tutti i suoi beni mobili, l’archivio, la metà dell’artiglieria e conservava tutti i beni allodiali che la casa d’Este possedeva nei territori ceduti.
Già il 9 gennaio C., convocati i Savi di Ferrara, aveva rimesso nelle mani del loro giudice lo scettro e la corona ducale. Il 28 gennaio, dopo aver sentito messa in duomo ed essere stato ribenedetto dal vescovo, lasciò Ferrara e si avviò a Modena, accompagnato dalla moglie, dai figli e dalla corte in numerose carrozze scortate da alcune centinaia di cavalleggeri. Il giorno dopo entrava in Ferrara il cardinale Aldobrandini. Per il suo comportamento C. fu allora e in seguito tacciato di inettitudine e di viltà; e circolarono molte satire contro questo Cesare, così diverso dall’omonimo antico. Forse solo il Marino in un epigramma della sua Galleria (Venezia 1664, p. 118) ne attribuì la resa non a vigliaccheria, ma a pietà religiosa. Del resto la perdita di così gran parte del suo Stato non diminuì l’ossequio del devotissimo C. verso l’autorità papale. Quando nel maggio 1598 Clemente VIII venne per la prima volta a Ferrara, C. andò a incontrarlo a Rimini per protestargli la sua filiale devozione. In compenso il papa, il 3 marzo 1599, fece cardinale Alessandro d’Este.
Modena, la nuova capitale dello Stato estense era, al confronto di Ferrara, una città piccola e brutta: la sua popolazione era circa la metà di quella ferrarese, le sue vie strette e maltenute, deplorevoli le condizioni igieniche, anche per quei tempi. Per alloggiare il duca si dovettero riattare in fretta alcune stanze del castello. L’archivio estense e la biblioteca furono trasportati con così poca cura che andarono perduti bellissimi libri; per parecchio tempo non si seppe dove collocare le preziose raccolte, che il letterato e funzionario ducale G. Ottonelli salvò da maggiori danni mettendole al riparo a casa sua.
Presto altre perdite si aggiunsero a quelle che C. aveva subito. Il cardinale Bandini, legato di Romagna, fece occupare militarmente Comacchio, che non era compresa nella capitolazione di Faenza e chesi riteneva feudo imperiale. Lucrezia d’Este, fin da quando ancora viveva il duca Alfonso, aveva reclamato la sua parte di legittima sui beni di Ercole II. Morendo il 12 febbr. 1598 essa lasciò erede il cardinale Aldobrandini, che fece sua la lite. Inoltre Anna d’Este duchessa di Nemours mosse lite a C. per avere anche lei la sua legittima sui beni allodiali d’Ercole II e rivendicò per sé ciò che gli Estensi possedevano in Francia: il ducato di Chartres, la viscontea di Caen, le signorie di Montargis e di Gisors e altri feudi minori. La lite col cardinale finì con una transazione (17 febbr. 1599) in seguito alla quale C. dovette cedergli il palazzo estense sul Canal Grande di Venezia, il palazzo del Belvedere presso Ferrara e altre possessioni. La lite con Anna fu, quanto ai beni di Francia, decisa nel 1601 da una sentenza del Parlamento di Parigi, confermata dal re, che dichiarò C., in base alla loi d’aubaine e alla presunta illegittimità di suo padre, inabile alla successione. Per i beni allodiali in Italia decise nel gennaio 1602 una sentenza della Sacra Rota propizia a Cesare.
Un piccolo ingrandimento del diretto dominio estense si ebbe invece con l’incameramento dello Stato di Sassuolo. Contro Marco Pio, che ne era signore feudale per investitura estense, furono sparate da ignoti alcune archibugiate quand’egli era appena uscito dal castello di Modena la sera del 19 nov. 1599. Riportato ferito in castello, vi morì diciotto giorni dopo. Era, tra i feudatari del duca, il più inquieto e facinoroso e dubbia era anche la sua fedeltà; perciò parecchi storici ritennero che C. fosse se non il mandante dell’attentato, almeno connivente. Fatto sta che, essendo il Pio senza figli, il duca dichiarò a sé devoluto l’importante feudo e mandò subito a prenderne possesso, aprendo inoltre un processo per fellonia, perché Marco aveva tentato di sottrarsi al vincolo feudale con gli Estensi mediante una diretta investitura imperiale. Enea Pio, il più prossimo parente di Marco, che aveva forti appoggi alla corte di Roma, ricorse al papa e all’imperatore. Di qui una lunga lite che fu definita solo nel 1609 da un lodo di Carlo Emanuele I di Savoia. C. conservò Sassuolo e le sue vaste pertinenze, ma dovette pagare al Pio 215.000 scudi romani.
Approfittando della diminuita potenza degli Estensi, la Repubblica di Lucca rimise innanzi le sue antiche pretese sulla Garfagnana. Questa regione era stata sempre inquieta, sia per le lotte di fazione, sia per le continue risse tra sudditi estensi e sudditi lucchesi, facilitate dal fatto che alcune terre appartenenti al ducato erano all’interno della Repubblica, mentre alcune terre dei Lucchesi, come Castiglione, erano dentro il ducato. Alcuni scontri di valligiani dettero dunque nel 1602 inizio a una guerricciola, che finì con una tregua imposta dal governatore di Milano, conte di Fuentes, nel 1603. La causa fu portata innanzi all’imperatore, che la deferì al Senato di Milano. Dopo anni di ricorsi e controricorsi, il Senato decise nel 1606 in favore dello Stato estense.
Abbandonato, anzi osteggiato dal re Enrico IV nel suo tentativo di conservare Ferrara, spogliato dell’eredità di Renata di Francia, C. si era ormai completamente affidato agli Asburgo, confortato in ciò anche dal fratello cardinale Alessandro, molto più attivo, energico e intelligente di lui e legatissimo alla Spagna.
Nel 1604 costui si recò a Praga per sostenere alla corte imperiale i diritti estensi sulla Garfagnana, nel 1606 fece avere al fratello il Toson d’oro, che da anni gli era stato promesso, e nel 1608 combinò il matrimonio del nipote Alfonso con Isabella, figlia di Carlo Emanuele I di Savoia e di Caterina d’Asburgo.
Il possesso della Garfagnana fu causa di un’altra guerricciola nel 1613. Scoppiato il conflitto tra Ferdinando Gonzaga e Carlo Emanuele I per la successione nel Monferrato, il granduca Cosimo II chiese a C. il passaggio per le sue truppe che andavano in aiuto del Gonzaga. C. lo negò e mandò milizie a custodire i valichi dell’Appennino; ma i Fiorentini, passando per luoghi deserti presso l’Alpicella, penetrarono nel Modenese e vi presero e saccheggiarono Montetortore.
Il governatore di Milano, marchese di Hynoiosa, mandò a C. un perentorio invito a lasciar passare, nell’interesse del re di Spagna, le truppe medicee. C. non poté ricusare; ma volle che i Fiorentini sfilassero ai margini, per così dire, del suo Stato, prima, lungo i confini del Bolognese, poi lungo quelli col principato di Mirandola, mentre più all’interno le sue truppe, vigilando, ne accompagnavano, parallelamente, la marcia. Della situazione approfittarono i Lucchesi: mandate truppe a Gallicano e a Castiglione, occuparono Valico e le Fabbriche, saccheggiarono le campagne intorno a Castelnuovo e assalirono Mulazzano. Truppe estensi furono mandate in fretta al soccorso sotto il comando dei principi Alfonso e Luigi d’Este, mentre il Bentivoglio accorreva in Frignano, dove i Lucchesi avevano fatto qualche puntata. I Modenesi attaccarono inutilmente Gallicano e misero l’assedio a Castiglione. L’Hynoiosa, per metter fine alla guerra, mandò a Modena il colonnello B. Biglia, che, recatosi in Garfagnana, ottenne di entrare, l’11 settembre, in Castiglione, che stava ormai per arrendersi, e vi fece innalzare sulle mura gli stendardi del re di Spagna, costringendo così i Modenesi a desistere dall’assalto. Intanto il cardinale Alessandro era corso a Milano il cui governatore, il 20 settembre, impose ai contendenti una sospensione delle ostilità. Dopo le solite lungaggini, durante le quali non cessarono zuffe e scaramucce fra valligiani, la vertenza fu definitivamente risolta da un decreto imperiale del 27 ag. 1618, che confermò la sentenza data nel 1606 dal Senato di Milano.
Il 15 genn. 1615 morì la duchessa Virginia. Il matrimonio di C. con lei non aveva dato alla casa d’Este i vantaggi sperati. In nessuna occasione i Medici avevano voluto o potuto dare agli Estensi un aiuto efficace.
Inoltre Virginia, poco dopo le nozze, era divenuta psicopatica, spesso con vere e proprie manifestazioni d’alienazione mentale, tanto che più volte fu creduta spiritata ed esorcizzata. Sebbene uno degli aspetti della sua psicopatia fosse l’avversione per i rapporti sessuali, essa aveva avuto ben nove figli (Giulia, Laura, Alfonso, Luigi, Eleonora, Ippolito, Nicolò, Borso e Foresto), che sopravvissero ai genitori.
Dopo la perdita di Ferrara l’importanza dello Stato estense nel quadro della vita politica italiana si era ridotta quasi a nulla, non solo per la diminuzione territoriale e demografica, ma anche per il disordine amministrativo e l’inefficienza militare. C., quando divenne duca, era privo di qualsiasi esperienza politica e lasciava la più ampia e incontrollata autorità al suo primo ministro, il Laderchi, e ai suoi funzionari, spesso incapaci e disonesti. Nelle campagne la popolazione era angariata dalle prepotenze dei feudatari, che il potere centrale non sapeva frenare. L’economia era impoverita. La rivalità fra i nobili ferraresi che avevano seguito il duca a Modena, e quelli modenesi, che ad essi si vedevano quasi sempre posposti, era un’altra causa di turbamento nella vita della corte e dello Stato. Il Laderchi, che morì nel 1618, era un buon giurista e un abile segretario, ma non aveva tutte le qualità che sarebbero state necessarie al ministro di un sovrano debole e irresoluto.
Nel 1624 morì il cardinale Alessandro, che, da Roma e da Tivoli, dove abitualmente risiedeva, aveva sempre mandato al fratello accorti consigli; ma ormai da anni il principe ereditario Alfonso, uomo di carattere duro e deciso, aveva assunto una parte importante nel governo dello Stato. Egli voleva essere informato dagli agenti ducali di tutti gli affari e protestava se il duca prendeva qualche decisione importante senza consultarlo. La sua gelosa cura della “reputazione” di casa d’Este lo spinse ad ordinare l’assassinio di Ercole Pepoli, avvenuto a Ferrara nel dicembre 1617. I Pepoli, per vendetta, congiurarono contro di lui e per due volte, nel 1619 e nel 1620, tentarono di farlo uccidere. Il duca C., nella sua mitezza, avrebbe voluto venire a una pacificazione e solo quando fu ben certo della realtà e della pericolosità della congiura fece processare i colpevoli. Filippo e Cornelio Pepoli furono condannati a morte in contumacia e quattro loro complici furono decapitati nel novembre 1621. Il contrasto di carattere tra il duca e il principe non impedì, anzi forse rafforzò, il loro reciproco affetto e accordo. La perdita di Isabella di Savoia (22 ag. 1626), amatissima dallo sposo e dal suocero, rattristò gli ultimi anni del duca, che morì l’11 dic. 1628.
Sia per il maggior impegno del duca e il lungo periodo di pace, che egli aveva saputo mantenere, sia per le energiche intromissioni del principe, le condizioni interne del ducato erano andate, negli ultimi dieci o quindici anni, via via migliorando. L’amministrazione negli otto governatorati in cui lo Stato era diviso (Modena, Reggio, Carpi, Rubiera, Brescello, Sassuolo, Sestola e Castelnuovo di Garfagnana) era divenuta più ordinata ed efficiente. L’autorità ducale era riuscita a limitare il prepotere dei feudatari. Di tutto ciò si era avvantaggiata l’economia. I rapporti con gli altri Stati restavano quelli che poteva e uno staterello, al quale il completo allineamento con la politica spagnola e l’effettiva dipendenza dai suoi rappresentanti in Italia impedivano di avere una propria politica estera. Ma il miglioramento delle condizioni interne andò creando il presupposto per quella ripresa di autonoma iniziativa politica che si ebbe col duca Francesco I.
Fonti e Bibl.: Nella sezione Estense dell’Arch. di Stato di Modena riguardano C. e il suo governo specialmente le buste 85-91, 96-97, 167, 174, 176, 179-185, 188, 191, 193, 197-201, 206-212, 273-274, 278, 280, 287-291, 297, 300-301, 306-311, 319-320, 322-323, 336-340, 490-492, 509-515, 552-559 della serie Casa e Stato e le buste della serie Ambasciatori ecc. relative agli anni 1597-1628. Su C. non esiste una monografia. Notizie complessive in L. A Muratori, Antichità Estensi, II, Modena 1740, pp. 406 ss.; A. Frizzi, Mem. per la storia di Ferrara, V, Ferrara 1848, pp. 1 ss.; L. Amorth, Modena capitale, Modena 1967, pp. 31 ss.; L. Chiappini, Gli Estensi, Milano 1967, pp. 377 ss. Sul suo matrimonio, oltre a M. Bellonci, I segreti dei Gonzaga, Milano 1967, ad Indicem, si vedano: Descrizione del magnificentissimo apparato… nelle nozze… di C. d’E. e Virginia de’ Medici, Firenze, febbraio 1585 (stile fiorentino; 1586 stile moderno); Rime del Tasso e di altri autori per le nozze…, Ferrara 1586; Le nozze di C. d’E. con Virginia de’ Medici descritte da S. Fortuna, a cura di E. Saltini-C. Bargioli, Firenze 1869; T. Tasso, Lettere, a cura di C. Guasti, Firenze 1852-55, ad Indicem;Id., Opere minori in versi, a cura di A. Solerti, III, Bologna 1895, pp. 489-96; Id., Rime, a cura di A. Solerti, IV, Bologna 1902, pp. 330 ss., 360 ss.; A. Tassoni, Lettere, a cura di G. Rossi, Bologna 1901-1910, II, pp. 124, 197; F. Testi, Lettere, a cura di M. L. Doglio, Bari 1967, ad Ind.;A. Solerti, Vita di T. Tasso, II, Torino 1895, pp. 473 ss.; Id., Ferrara e la corte estense nella 2ª metà del sec. XVI: I Discorsi di A. Romei, Città di Castello 1901, pp. 88 ss. Sulla devoluzione di Ferrara, L. Balduzzi, L’istrumento finale della transazione di Faenza, in Atti e mem. della Dep. di storia patria per le prov. di Romagna, s. 3, IX (1891), pp. 80 ss.; E. Callegari, La devoluzione di Ferrara alla S. Sede, in Riv. stor. ital., XII (1895), pp. 1 ss.; V. Prinzivalli, La devoluzione di Ferrara alla S. Sede secondo una relazione inedita di C. Capilupi, in Atti e mem. della Dep. ferrarese di storia patria, X(1898), pp. 119-330 (contiene un ricco elenco di fonti archivistiche e di scritture a stampa sincrone alla devoluz.); G. Ballardini, Sulla convenzione faentina del 1598, in Arch. stor. ital., XXXVIII(1906), pp. 339 ss.; P. Antolini, Sei lettere del card. P. Aldobrandini, in Atti e mem. della Dep. ferrarese di Storia patria, XXII(1915), pp. 47 ss.; G. Pardi, Sulle cause della devoluzione di Ferrara alla Santa Sede,ibid., XXIV (1921), 2, pp. 113 ss.; L. von Pastor, Storia dei papi, X, Roma 1955, ad Indicem; XI, ibid. 1958, ad Indicem; A.Gasparini, C. d’E. e Clemente VIII, Modena 1960; B. Barbiche, La polit. de Clément VIII à l’égard de Ferrare en novembre et décembre 1579…, in Mélanges d’archéologie et d’histoire. Ecole française de Rome, LXXIV(1962), pp. 289 ss. Su altri aspetti: Relazioni inedite di ambasciatori lucchesi…, nei secoli XVI e XVII, a cura di A. Pellegrini, Lucca 1901, p. 269; E. Piva, Quattro satire contro C. d’E., Voghera 1892; F. Gabotto, Per la storia della letteratura civile ai tempi di Carlo Emanuele I, in Rendic. dell’Accad. dei Lincei, classe di scienze mor., s. 5, III (1894), p. 584; A.Pilot, C. d’E. e la satira, in Ateneo veneto, XXXVI(1907), pp. 153 ss. Sulle successive vicende: B. Ricci, Le ambascerie estensi di G. Silingardi…, II, Modena 1907, pp. 251 ss.; G. B. Spaccini, Cronaca modenese, a cura di G. Bertoni-T. Sandonnini-P. E. Vicini, Modena 1911-1919, ad Indicem (la parte inedita è nell’Arch, stor. comun. di Modena); L. Tolomei, Relazione di Modena(1601-1605), a cura di C. e G. Campori, Modena 1867; G. Campori, Memorie storiche di Marco Pio di Savoia, Modena 1871; N. Cionini, Cenni e documenti su Marco Pio di Savoia, in Atti e mem. della Dep. di storia patria per le ant. prov. modenesi, s. 3, II(1883), p. 497 ss. Sull’archivio e la biblioteca: G. Campi, Cenni storici intorno l’archivio segreto estense,ibid., II(1864), pp. 339 ss.; G. Mazzatinti, Gli archivi della storia d’Italia, IV, Rocca San Casciano 1906, p. 149; D. Fava, La biblioteca estense nel suo sviluppo storico, Modena 1925, p. 167. Infine: V. Santi, Il passaggio dei Toscani per il Modenese nel 1613, Modena 1886; Id., La storia nella “Secchia rapita”, in Arti e mem. dell’Acc. di sc., lett. e arti di Modena, s. 6, VI (1906), pp. 3-466, e IX (1910), pp. 3-447; G. Cavazzuti, Di Alfonso III d’Este, in Atti e mem. della Dep. di storia patria per le ant. prov. modenesi, s. 5, V (1907) pp. 1 ss.;G. Polacci, C. d’E. duca di Modena e le “sportole”, in Boll. della Camera di commercio di Modena, LXV (1959), pp. 1346 ss.